Io mi rendo conto che la mia formazione ė di tipo popolare. Non ho mai amato, o meglio non mi sono mai sentita attratta dalle ricerche accademiche, quelle con tutti i crismi e le procedure, quelle che i docenti considerano serie, con tutto l'apparato di note e il rispetto delle procedure accreditate. Durante i miei studi, mi sono sempre comportata come una figlia del popolo che, se intuisce una buona idea, qualcosa che ti può suggerire un modo nuovo per sperimentare la vita, se ne appropria in termini sostanziali, senza badare alle forme, e prova a metterla in pratica. E mi piace parlare anche in modo che la gente normale, di media cultura, capisca perfettamente quello che voglio dire, o almeno possa intuirlo senza doversi contorcere l'intestino. Non mi attirano per esempio i romanzi sperimentali, dove la creatività si concentra sul linguaggio. Voglio vedere le cose, il fare, ed è lì che mi piace l'innovazione, il tentare, il trovare cose nuove, e anche modi diversi di fare.
Penso al paradossale destino dell’uomo, questo essere effimero capace di creare cose che durano più di lui.
E penso che forse è un segno, questo, della sua vocazione a lavorare per la vita, oltre i propri recinti personali. E immagino che di qui derivi quella intensa soddisfazione che l'individuo prova quando allarga i rami del suo frutteto oltre la cinta dell’orto. Quando il suo albero produce frutti in abbondanza per chiunque passi sotto e ne voglia.
E penso che la vita sembra non vada a economia, non faccia i conti all'osso, e che butti a miglioni quando serve solo uno. E che il di più non è spreco ma abbondanza.
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