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La cavalla

Anche a me, fin da bambina – soprattutto da bambina – piacciono i cavalli. Quelli degli indiani mi piacevano più di quelli dei cow boy, perché più naturali e liberi – meno soggiogati alla disciplina dell’addestramento. 



Il cavallo, senza sella e redini, è sempre stato ai miei occhi un simbolo di libertà. Correre nelle praterie. Vigore ed elasticità. Nomade. Tutto sommato, senza appartenenza. Irriducibile. Cittadino di quell’altrove che non si lascia assorbire da nessun paese, gruppo, cultura. Ma desideroso di attraversarne tanti, come farebbe un esule. Vivere in luoghi diversi, parlare in più lingue, conoscere più culture. 



Tutto questo è oltremodo attraente. E il nostro tempo offre la possibilità di questa esperienza a tanti. Le culture, a ben vedere, si stanno compenetrando, sono una a fianco dell’altra negli stessi luoghi. 



E io dovrei rinchiudermi in una etnia, in una regione, in una confessione religiosa, in una ideologia? 



I recinti diventano routine e generano noia. Pretendono di tenere nelle loro gabbie l’inquieto e inarrestabile potenziale umano, quello che si esprime nelle scoperte e nelle creazioni. E che vuole una lingua viva, generosa, audace, spregiudicata per diventare esperienza nuova. La lingua di un esule, di un nomade. 



Lo sguardo di una cavalla. 

 



 


Commenti

  1. Che poi di questi confini non ne ho mai trovati segnati per terra, sempre e solo sulle cartine, ma per terra mai

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