Oramai ragionavo per metafore. E in maniera piuttosto sbrigativa. Per esempio, dicevo: “questa gente è vecchia”, anche se mi trovavo tra trentenni. Era presuntuoso, lo so. Il fatto è che avevo una certa inquietudine addosso. Non mi rassegnavo allo stato delle cose, né mi era più sufficiente coltivare una sorta di spiritualità. Mi sembrava che mancasse qualcosa di decisivo, qualcosa di fondamentale.
È come quando stai raccontando una storia che non è ancora finita. Una storia in corso di… e che, fino a quel momento, non lascia intravedere l’esito.
Poi, c’era dell’altro. Malgrado il mio vigore fisico, avvertivo i segni dell’età. Il metabolismo era più lento, la fatica nei lavori del bosco mi lasciava nelle braccia e nelle mani una traccia a lungo sensibile. E mi sembrava che non fosse ancora il tempo di…
Insomma, il tempo passava. Il tempo era passato. Ne era passato tanto, di tempo, e ancora…
Certo, ero in grado di elencare tutta una lunga serie di vicende, di fatti, di risultati, di conquiste, di esperienze che potevano placare un po’ la perplessità connessa con la domanda che m’interrogava perennemente sul valore della mia esistenza. Ma tutto quel passato era incapace di smorzare l’inquietudine che sentivo nel profondo – checché ne pensassero gli altri, in genere così generosi nei miei confronti.
Ad essere spregiudicatamente sincero, mi pareva, ancora una volta, che la mia vita fosse inutile.
Non mi tormentavo per il male fatto. In realtà non ho mai fatto del male intenzionalmente a qualcuno. Anche se so di aver fatto soffrire e creato problemi. Ma non era questo. So che i piatti li rompe chi li lava. E ho sviluppato una sorta di compassione per quel che mi riguarda, sufficiente a non darmi rimorsi se nel mio viaggio ho urtato qualcuno.
Era qualcosa di più struggente, di più profondo. E ne scaturiva quella sorta di melanconia che non si lascia tradurre facilmente in romanticismo e poesia, ma si trasforma piuttosto in una puntura lancinante proprio nel centro del cuore.
Sapevo che si trattava di quella parte del Sogno che non era stata realizzata. Quella parte del Sogno che tutto il traffico del passato non era stato in grado di trasformare in realtà. Questa era la fonte dell’inquietudine.
Erano gli altri ad essere “vecchi”? o non ero piuttosto io?
Io, che non mi ritrovavo più addosso la forza e lo slancio di continuare a cercare, a fare, a intraprendere?
Penso al paradossale destino dell’uomo, questo essere effimero capace di creare cose che durano più di lui.
E penso che forse è un segno, questo, della sua vocazione a lavorare per la vita, oltre i propri recinti personali. E immagino che di qui derivi quella intensa soddisfazione che l'individuo prova quando allarga i rami del suo frutteto oltre la cinta dell’orto. Quando il suo albero produce frutti in abbondanza per chiunque passi sotto e ne voglia.
E penso che la vita sembra non vada a economia, non faccia i conti all'osso, e che butti a miglioni quando serve solo uno. E che il di più non è spreco ma abbondanza.
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