Quando inizio una storia improvvisamente mi sento bella, brillante,
interessante, giovane, efficiente, affamata, agile, gentile e svelta.
Quando finisce una storia altrettanto improvvisamente mi sento brutta, noiosa, vecchia, inefficiente, inappetente, goffa, scontrosa e lenta.
Poi cerco di razionalizzare - e dai ancora con questa benedetta razionalità! – cerco di comprendere i motivi della fine, di giustificarmi, di crearmi alibi, di dimenticare, lasciarmi andare, partire, tornare, precipitare, salire, avanzare, volare, volere, camminare, nuotare, leggere, scrivere, lavorare, pulire, ordinare, cucinare, cambiare.
Cerco di prendere tempo dentro di me, di tirarmi fuori dai ricordi come scalare le pareti scivolose e umide di un pozzo intravedendo lassù in alto i contorni di una luce. Una scalata rigorosamente libera, senza alcuna rete di protezione. Una mano dopo l’altra, un piede dopo l’altro, stringo i denti e lentamente salgo, cercando di sfruttare ogni appiglio, ogni minuscola fenditura della parete, nonostante il buio.
Questa notte ho iniziato “Il giocatore” di Dostoevskij ma la lettura non ha giovato al mio sonno, se non per poche ore. Ho dormito poco. Come se non bastasse poi sono stata colta da tipici sintomi influenzali, improvvisi brividi di freddo e poi caldo, e poi freddo e poi caldo. Ho istericamente tolto e messo le coperte, prima senza nulla, poi con il solo lenzuolo, poi con coperta e lenzuolo, infine con il solo lenzuolo, e così via, in tutte le combinazioni possibili. Mi sono svegliata alle quattro con le narici otturate, mal di schiena, senza poi riuscire a trovare una posizione adatta per addormentarmi. Come se questa notte avessi vissuto una metaforica ricerca di una posizione adatta, non certo per dormire, bensì per vivere. Tutte le mie inquietudini, le mie insicurezze si sono traspose in una vana ricerca di una posizione che fino al mattino non ho trovato. Neppure adesso l’ho trovata. Credo che dovrò cambiare materasso. Alle sei, tutt’altro che fresca e riposata mi sono alzata. Il latte caldo e miele per la gola infiammata però mi ha fatto stare bene.
Mi ero promessa di fare qualcosa questa mattina. E invece non me ne frega un cazzo, mi ritrovo qui a scrivere queste righe sconnesse senza un motivo o un fine, o forse per una esigenza che adesso non colgo. Contrariamente alle mie abitudini ho già preso due caffè e sento il bisogno di un terzo. Il caffè mi calma e mi mette di buon umore. Strano a dirsi, ma è così. Sento il bisogno di prendere qualche vizio! Diventerò caffeinomane.
Ripenso a quando ci siamo visti l'ultima volta, con la chiara consapevolezza di perderci a breve. Io volevo abbuffarmi della tua presenza, come un barbone che invitato per caso ad una pantagruelica cena si avventa vorace senza alcun ritegno su ogni possibile cibo. Tu sei stato il mio cibo. Delizioso e nutriente cibo. E adesso mi sento seduta con le mie poche cose su una desolata panchina di una anonima stazione senza partire, né tornare, tra gente che va e che viene. E cerco di capire la natura del silenzio che mi tiene sotto assedio.
Quando finisce una storia altrettanto improvvisamente mi sento brutta, noiosa, vecchia, inefficiente, inappetente, goffa, scontrosa e lenta.
Poi cerco di razionalizzare - e dai ancora con questa benedetta razionalità! – cerco di comprendere i motivi della fine, di giustificarmi, di crearmi alibi, di dimenticare, lasciarmi andare, partire, tornare, precipitare, salire, avanzare, volare, volere, camminare, nuotare, leggere, scrivere, lavorare, pulire, ordinare, cucinare, cambiare.
Cerco di prendere tempo dentro di me, di tirarmi fuori dai ricordi come scalare le pareti scivolose e umide di un pozzo intravedendo lassù in alto i contorni di una luce. Una scalata rigorosamente libera, senza alcuna rete di protezione. Una mano dopo l’altra, un piede dopo l’altro, stringo i denti e lentamente salgo, cercando di sfruttare ogni appiglio, ogni minuscola fenditura della parete, nonostante il buio.
Questa notte ho iniziato “Il giocatore” di Dostoevskij ma la lettura non ha giovato al mio sonno, se non per poche ore. Ho dormito poco. Come se non bastasse poi sono stata colta da tipici sintomi influenzali, improvvisi brividi di freddo e poi caldo, e poi freddo e poi caldo. Ho istericamente tolto e messo le coperte, prima senza nulla, poi con il solo lenzuolo, poi con coperta e lenzuolo, infine con il solo lenzuolo, e così via, in tutte le combinazioni possibili. Mi sono svegliata alle quattro con le narici otturate, mal di schiena, senza poi riuscire a trovare una posizione adatta per addormentarmi. Come se questa notte avessi vissuto una metaforica ricerca di una posizione adatta, non certo per dormire, bensì per vivere. Tutte le mie inquietudini, le mie insicurezze si sono traspose in una vana ricerca di una posizione che fino al mattino non ho trovato. Neppure adesso l’ho trovata. Credo che dovrò cambiare materasso. Alle sei, tutt’altro che fresca e riposata mi sono alzata. Il latte caldo e miele per la gola infiammata però mi ha fatto stare bene.
Mi ero promessa di fare qualcosa questa mattina. E invece non me ne frega un cazzo, mi ritrovo qui a scrivere queste righe sconnesse senza un motivo o un fine, o forse per una esigenza che adesso non colgo. Contrariamente alle mie abitudini ho già preso due caffè e sento il bisogno di un terzo. Il caffè mi calma e mi mette di buon umore. Strano a dirsi, ma è così. Sento il bisogno di prendere qualche vizio! Diventerò caffeinomane.
Ripenso a quando ci siamo visti l'ultima volta, con la chiara consapevolezza di perderci a breve. Io volevo abbuffarmi della tua presenza, come un barbone che invitato per caso ad una pantagruelica cena si avventa vorace senza alcun ritegno su ogni possibile cibo. Tu sei stato il mio cibo. Delizioso e nutriente cibo. E adesso mi sento seduta con le mie poche cose su una desolata panchina di una anonima stazione senza partire, né tornare, tra gente che va e che viene. E cerco di capire la natura del silenzio che mi tiene sotto assedio.
Ama chi sei perchè devi aspettarti grandi cose da te stessa
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