Volevo scrivere un testo per mio blog, ma non sapevo da che parte cominciare. Ero tutta presa dagli scopi.
Il testo avrebbe dovuto avvincere,, trascinare dalla mia parte, indurre interesse per la mia vita e per la mia produzione artistica. Avrebbe dovuto far capire che non producevo soltanto immagini belle, ma avevo un pensiero, collocavo il mio lavoro all’interno di un disegno più generale, che era quello di tener testa al cambiamento, cercare di viverlo al meglio, di farne un’esperienza di apprendimento felice, e cose del genere.
Le parole scorrevano rapide ed efficaci, frecce precise nel centro del bersaglio, quando mi occupavo degli obiettivi ma, una volta definito il compito… ecco, a questo punto, il flusso si bloccava e non capivo perché l’oscurità calasse come un pesante sipario sul proscenio. Non veniva fuori niente.
C’è un salto mortale tra parlare di scrittura e scrivere davvero, riflettevo.
Nel momento, però, in cui rinunciavo a svolgere il compito e mi accontentavo di raccontare questo spiacevole episodio, ecco, allora, succedeva che il parlare di scrittura si trasformasse per magia in scrittura per davvero.
In conclusione, scrivere è raccontare una storia.
Penso al paradossale destino dell’uomo, questo essere effimero capace di creare cose che durano più di lui.
E penso che forse è un segno, questo, della sua vocazione a lavorare per la vita, oltre i propri recinti personali. E immagino che di qui derivi quella intensa soddisfazione che l'individuo prova quando allarga i rami del suo frutteto oltre la cinta dell’orto. Quando il suo albero produce frutti in abbondanza per chiunque passi sotto e ne voglia.
E penso che la vita sembra non vada a economia, non faccia i conti all'osso, e che butti a miglioni quando serve solo uno. E che il di più non è spreco ma abbondanza.
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