Erano gli spazi di gioco i luoghi dei nostri sogni. Allora ne avevamo il tempo. Le nostre agende erano piene di spazi bianchi, oltre la scuola, la messa la domenica, e la visita a zia Maria il giovedì pomeriggio. Anzi, non avevamo agende. E i nostri giochi erano imprese da grandi, ma diverse: gustate per loro stesse e non in vista di qualche obiettivo. Ci piaceva essere l’architetto (con la sabbia), il pilota, il marinaio, l’alpinista, il corridore… I più grandi c’invidiavano, di certo, dato che venivano a minacciarci e a molestarci se erano nelle vicinanze. E anche questo era un segnale che noi avevamo, allora, il segreto della vita vera.
All’inizio lo specchio era solo uno specchio. Ma aveva già tutto il mistero e il potere dello specchio. Guardarsi allo specchio non andava senza conseguenze. Il mito di Narciso ne è la testimonianza. Lo specchio poteva servire per controllarsi, per un esame di coscienza, per correggersi, per un sano amor proprio… oppure poteva produrre quell’incanto, quella malia che l’innamoramento della propria immagine mette in scena e che può portare a smarrire se stessi, la realtà e a inquinare i rapporti con il mondo e le persone.
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